Live Report: Gianluca Petrella Trio + John De Leo @ Sala Vanni (Firenze, 21 ottobre 2017)

petrella-trio-john-de-leoQuello che è successo sabato in Sala Vanni a Firenze per il ciclo Jazz Supreme 2017 è sicuramente da ricordare. Al di là degli ospiti di cui tra poco parleremo, la stagione di musica ha visto un inizio col botto, annunciando il sold out un giorno prima del concerto. Ciò non ha evitato di fermare la gente che continuoava a presentarsi al botteghino per richiedere dei biglietti per posti in piedi all’interno della sala. Risultato? Una sala gremita di ascoltatori che si sono goduti la musica senza per forza stare seduti (lo stare seduti è sì, molto comodo, ma spesso allontana, imbalsama quella che dovrebbe essere la partecipazione viva alla musica live, ma insomma, questi poi sono giudizi personali), che interagivano coi musicisti, mostrando il loro entusiasmo.

Appunto, sul palco un manipolo di eroi del jazz italiano: Gianluca Petrella al trombone e all’elettronica; Michele Papadia alle tastiere, piano Fender, NordLead, MOOG e quant’altro; Stefano Tamborrino alla batteria. Come se non bastasse, un ospite d’onore dalla scena pop/sperimentale italiana: John De Leo, fondatore dei Quintorigo. La prima parte del concerto, il trio viaggia tra sonorità ’70s, come già annunciato dal programma (l’honky tonky e i bassi continui di Papadia avevano del vistuoso), toccando le atmosfere del rock à la Pink Floyd (il trombone di Petrella si trasmutava in tromba all’occorenza, o in corno), del calore del soul, l’energia del funk, il groove del lounge, le molteplici tonalità dell’electric jazz à la Dave Weckl (il polpo Tamborrino si destreggiava tra charleston, rullanti e ride). L’ingresso di John De Leo, ha portato paradossalmente più difficoltà nel flusso del trio. Già, poiché la voce non “parlava”, per usare termini “70s”, non significava, ma “suonava”. Coi suoi vocalizzi De Leo giocava a creare beat, bassi continui, chitarre. Amalgama davvero ben riuscita è nel primo pezzo tutti assieme: un caldissimo space dub dalle tinte chiaroscure, in cui ogni dettaglio veniva risaltato. Per il resto, De Leo, sembrava unirsi faticosamente (ma più che dignitosamente) all’esperimento dei tre. Sicuramente, il jazz vocale così (un po’ à la Jac Berrocal) non è cosa di tutti i giorni, e quando ci sono crossover simili, fa sempre piacere. Il pensare che la voce sia soprattutto uno strumento, è qualcosa che si fa sempre fatica. E invece, nella concretizzazione di De Leo, in qualche modo, è stato possibile.
Un concerto che ha ampliato l’orizzonte del suono, dello spirito, ma soprattutto, di qualcosa che dipende da ognuno di noi, al di là di quello che si pensa possa oggettivamente esserci fuori: l’ascolto.
Riccardo Gorone

 

Articoli correlati

Pulsante per tornare all'inizio