Dieci anni fa ci salutò Marco Pantani, mito immortale del ciclismo

FIRENZE – Nello sport ci sono pochissimi individui che possono fregiarsi del titolo di “mito”. Nel calcio abbiamo avuto Pelè e Maradona, con Messi che potrebbe salire sull’Olimpo del football. Nel pugilato come dimenticarsi di Cassius “Mohammad Alì” Clay. Nella Formula 1, Gilles Villeneuve e Michael Schumacher, con Sebastian Vettel che con ogni probabilità sarà un “mito” dell’automobilismo. Nelle moto Valentino Rossi. Etc. Nel ciclismo, soprattutto italiano, abbiamo avuto miti come Gino Bartali e Fausto Coppi. Ma “mito” era, anzi è, anche Marco Pantani, il “pirata”.

Il giorno di San Valentino di dieci anni fa mi trovavo ad Imola per la radiocronaca in diretta di Imola-Al.Pi. Prato di pallamano. Era una squadra, quella pratese, in lento ed inesorabile declino, lontana da quel team che tra il 1997 e il 2000 vinse due scudetti e due Coppe Italia. Stavamo arrivando al palazzetto quando, tutto a un tratto, la radio che trasmetteva musica si interruppe per un’edizione straordinaria del giornale radio. Il corpo senza vita di Marco Pantani era stato trovato senza vita. L’anima del pirata aveva scalato la montagna più alta, fino al cielo.

Pantani, negli anni a cavallo tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo, è stato sicuramente uno dei ciclisti più popolari e più amati dal pubblico. Quando si alzava sui pedali pareva che stesse danzando. Una danza tribale, da vero pirata, che faceva sognare milioni di appassionati di ciclismo e non. Con la sua bandana e il suo orecchino mordeva la fatica e scalava montagne impossibili per un semplice uomo. Marco era di un altro pianeta. E lo dimostrava sempre, anche nei momenti di massima difficoltà. La tappa che porto nel cuore è sicuramente la 15° del Giro d’Italia 1999, quella che da Racconigi portava ad Oropa (vedi video). A pochi chilometri dal traguardo, a Pantani salta la catena. Perde un sacco di secondi. I compagni della Mercatone Uno tornano indietro e da lì inizia la rincorsa di Marco Pantani, lo “scalatore puro”. Ad uno ad uno, il pirata riprende e supera tutti. Heras, Savoldelli (che si dimostrerà un gran signore quando Pantani fu sospeso per l’ematocrito troppo alto rifiutandosi di indossare la maglia rosa), Gotti (che fece il contrario di Savoldelli), Jalabert. Marco li mise nel mirino e li salutò, andando a vincere di forza una tappa come nessuno aveva mai fatto prima.

Ecco, è questo il ricordo che ho di Marco Pantani. Un uomo che, quando inforcava la bicicletta, ti faceva volare con lui. Un uomo che non si dava mai per vinto. Un uomo che però, dopo la sospensione e le accuse (infondate) di doping, è caduto in una profonda depressione che l’ha portato nel vortice della droga. Fino a quel maledetto giorno di San Valentino di dieci anni fa. Non sono un complottista, ma la circostanza della morte di Pantani è avvolta da un alone di mistero che difficilmente sarà chiarito. A cominciare dal fatto che è molto strano che un tossicodipendente morto per cocaina non abbia lasciato alcuna traccia della sostanza stupefacente nella stanza del residence dove è deceduto. E, comunque, il pirata non era nemmeno dipendente dalla cocaina. Poi, con Pantani, oltre al nome di Battesimo mi accomunava un’altra cosa: l’odio per la cucina cinese. Perché in quella camera furono trovati i residui di cibo cinese? Sono tante le domande senza risposta sulla morte fisica di Pantani. Dico “fisica” perché, nel cuore di noi appassionati e delle persone che gli hanno voluto bene, Marco non è mai morto. Ma il ciclismo, quello sì, dopo l’era di Marco Pantani detto “il pirata”, non è più lo stesso.

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