SANITÀ – Terapie antitumorali: negli studi clinici le donne sono sottorappresentate
Rossana Berardi, Presidente di Women for Oncology Italy: “Non c’è una preclusione di genere, perché i protocolli di accesso agli studi sono uguali per uomini e donne, ma le condizioni di base e la posizione della donna nella famiglia possono influenzare la scelta”
Le donne sono state spesso sottorappresentate negli studi clinici che hanno portato all’approvazione da parte dell’Fda, l’ente statunitense per i farmaci, delle terapie antitumorali contemporanee: in media, sono sottorappresentate del 16,5% rispetto all’incidenza proporzionale di cancro registrata.
Ad accendere i riflettori sulla scarsa presenza del sesso femminile in questo ambito di ricerca è un recente studio presentato al Congresso mondiale dell’American Society of clinical oncology (Asco), condotto dalla Ohio State University James Cancer Center. I farmaci antitumorali contemporanei, sottolineano gli autori dello studio, hanno spesso efficacia ed effetti collaterali diversi negli uomini e nelle donne. Tuttavia, le donne non sono ben rappresentate negli studi cardine a sostegno dei nuovi farmaci antitumorali. Per giungere a tale conclusione, gli autori hanno valutato retrospettivamente tutti gli studi di fase II e III a sostegno dell’approvazione della Fda di farmaci antitumorali dal 1998 al 2018. In totale, i partecipanti agli studi erano 97.566, arruolati in 189 studi clinici per valutare 123 terapie antitumorali. Il sesso è stato riportato in 182 (96,3%) studi clinici: il 43,4% (42.299) dei partecipanti erano donne, rispetto al 55,6% (55.267) di uomini.
Complessivamente, concludono gli autori, le donne erano sottorappresentate negli studi clinici sulle terapie antitumorali in media del 16,5% rispetto all’incidenza proporzionale di tutti i tumori nel sesso femminile. Le donne erano le più sottorappresentate negli studi sul cancro gastrico e del fegato. L’analisi dell’efficacia dei farmaci basata sul sesso è stata pubblicata solo nel 36,8% degli studi. Nel tempo, commentano i ricercatori, “la tendenza della percentuale di donne reclutate negli studi clinici è aumentata, ma non a un tasso paragonabile alla prevalenza dei tumori, e si sta ampliando il divario. Sono necessari ulteriori studi per comprendere l’impatto della sottorappresentazione delle donne sugli esiti dei farmaci antitumorali contemporanei”.
Quanto all’Italia, “Pur non essendoci dati conclusivi in ambito oncologico, il tasso di arruolamento negli studi clinici risulta globalmente inferiore delle donne rispetto agli uomini”, spiega Rossana Berardi, Presidente di Women for Oncology Italy. “Le motivazioni sono molteplici e, tra le altre, esistono delle difficoltà oggettive all’accesso agli studi legate, ad esempio, al fatto che in varie situazioni è necessario spostarsi in centri ad hoc, magari lontani dalla propria casa, o intraprendere un percorso che implica una moltiplicazione di procedure e visite. Questi elementi potrebbero contribuire a spiegare come mai le donne, quasi sempre il perno della famiglia o caregiver al suo interno, hanno più difficoltà ad accedere in generale agli studi sperimentali. Non c’è insomma una preclusione di genere, perché i protocolli di accesso agli studi sono uguali per uomini e donne, ma le condizioni di base e la posizione della donna nella famiglia possono influenzare la scelta.
Le difficoltà si riproducono anche, più in generale, per le donne arruolate negli studi clinici che impiegano farmaci non oncologici: in questi casi la partecipazione delle donne agli studi clinici è limitata in buona parte anche per l’esclusione delle donne incinte e in età fertile. Oggi più che mai dobbiamo imparare a gestire in maniera personalizzata non solo la malattia tumorale, ma anche la persona, tenendo conto delle differenze legate al genere, favorendo la possibilità di accedere anche alle donne a protocolli sperimentali. Tutto ciò passa indubbiamente attraverso una maggiore conoscenza della medicina di genere e in questo senso stiamo lavorando in ambito interministeriale (con Ministero Salute e Ministero Università) per licenziare quanto prima un Piano Formativo Nazionale per la Medicina di Genere, affinché gli operatori sanitari possano essere formati su questa rilevante tematica”.