Il buio oltre la storia. Le due mostre collettive al Museo Guggenheim di New York

Che cos’è il buio? Perché ci spaventa? È possibile rappresentarlo? E definirlo?

Queste sono solo alcune delle domande che sorgono spontaneamente di fronte alla mostra temporanea al museo Guggenheim di New York dal titolo “Going Dark” (diventare scuro, procedere verso il buio).
Una collettiva di giovani artisti che cercano e che hanno cercato l’oscurità nei loro lavori. Un’oscurità che viene declinata in più maniere: oscurità estetica, oscurità sociale, politica, informativa. Dalla pittura alle istallazioni, fino alla video-art e performance.

Per oscurità si intende l’impedimento del visibile e questi impedimenti, questa liminalità è il principale strumento che permette la rap-presentazione artistica. Tra le più interessanti “A Guide To Engaging with Security Theater”. Un’opera d’arte nascosta, una sfera sospesa al centro del museo che si sviluppa nella sua unica forma a spirale e che permette una visione panottica.

La telecamera di sicurezza riprende tutto quello che succede all’interno del museo, ma questo il fruitore non lo sa. Se ne renderà conto solo quando sarà il momento di entrare alla proiezione in tempo reale delle riprese della telecamera, situata in una stanza chiusa da una tenda con il personale che informa che le condizioni per assistere alla proiezione è di mettere i propri cellulari dentro una custodia con lucchetto. L’unico modo per poterlo aprire è ritornare all’ingresso del museo e chiedere agli addetti di togliere la sicura. Ciò per mettere il fruitore in una condizione non comunicativa, una sorta di bando, di censura rispetto al diritto di comunicare e nel contempo una libertà rispetto alla prigionia del controllo digitale dalla quale siamo tutti inconsapevolmente condizionati.

Altre opere di rilievo mettevano invece in risalto l’estetica tra il visibile e il non visibile: come incisioni su metallo che potevano essere viste solo da una prospettiva in controluce, o tessuti trasparenti appesi al muro che ricordavano figure fantasmatiche o personaggi senza volto incappucciati che fuoriuscivano dalle pareti del museo. In questo senso, tutta la mostra era allestita site-specific, costruita su misura avendo ben in mente la struttura museale. Tutto questo a riprova di come l’enorme scelta di mezzi di rappresentazione siano condizionati degli strumenti a disposizione determinate dal momento storico e sociale.

Non è difatti un caso che l’altra mostra parallela a Going Dark fosse “By Way Of”, ovvero una kermesse di vari artisti contemporanei attraverso un florilegio di opere che meglio potessero rappresentare come il mezzo diventasse il messaggio dell’opera. Per cui nomi di alto calibro come Joseph Beuys, Pier Paolo Calzolari, Gilberto Zorio, Mario Merz, Jannis Kounellis, Piero Manzoni. Chiaramente immancabile il vietnamita Dahn Vo con la geniale opera “Lot 20. Two Kennedy Administration Cabinet Room Chairs”, del 2013. Tanto recente quanto sinonimo di summa storiografica delle possibilità metaestetiche: Per creare quest’opera, l’artista ha letteralmente scuoiato due poltrone della camera presidenziale durante il mandato di John F. Kennedy con la cui pelle ha rimodellato una scultura a muro che raccoglie arte povera, concettuale, process art, minimalismo in un sol colpo. Le poltrone sono state acquisite attraverso un’asta da Sotheby dal Segretariato della difesa tra gli anni 1961 e 1968 con a capo Robert McNamara che avrebbe guidato la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra in Vietnam.

Le seggiole mutilate altro non sono che la rappresentazione del massacro e della violenza durante la guerra che ha coinvolto l’artista anche nella sua vicenda personale quando durante il 1979, nel dopoguerra, è dovuto fuggire dal Vietnam con la famiglia su una canoa costruita artigianalmente e poi soccorsa da una nave commerciale danese.

Le due mostre sono uno spaccato storico e tracciano una linea tratteggiata in cui la contemporaneità mostra la sua essenza proteiforme che si addentra nei decenni e dove la storicità è sempre dinamica e la storiografia e la storia dell’arte stessa diventano esclusivamente questione di etichetta, poiché i concetti includono sia quello che sta al suo interno che ne sta al di fuori, al limite della sua oscurità.

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