Fire! – The Hands (Rune Grammofon, 2018)

rlp2197-e1512580243697Il trio svedese Fire! Non scendono sicuramente a compromessi. Costituiti da Mats Gustafsson, Johan Berthling e Andreas Werliin, sono un’autentica macchina da guerra e quando si ha a che fare un capitano come Gustafsson, tutto diventa più pesante, più pericoloso. Si pensi all’altro power trio del jazz svedese (i The Thing, che vedono sempre Gustafsson al sax insieme a Paal Nilssen Love alle pelli) che con l’album Shake hanno saputo dare una definizione di tellurico nel jazz (che poi le cose non finiscono qui, perché le collaborazioni dei The Thing continuano con i Five Eyes, o il live con James Blood Ulmer, per esempio, e le formazioni si ampliano e trovano una particolare sfaccettatura).

Ecco, nel caso dei Fire!, il nome è tutto un programma e troviamo collaborazioni con veri e propri mostri sacri dello strumentale (come Jim O’Rourke, con Oren Ambarchi, in forma di orchestra per una potenza di fuoco davvero notevole), ma, si sa, è nel loro intimo che sparano le migliori cartucce. Con questo The Hands i tre tornano agli albori con un primitivismo espressivo disarmante e una ferocia travolgente. Un misto di stoner e jazz che non ha eguali, come se i Kyuss incrociassero Jerry Mulligan e Max Roach, ma il meccanismo è ben oliato e non da’ molto spazio a facili citazionismi.

I nostri suonano senza problemi anticipando il tutto con dei titoli che hanno qualcosa di ardito (giusto per elencarne alcuni: When Her Lips Collapsed, Washing Your Heart In Filth) che hanno un sapore molto rock/punk anche se, come sappiamo, i germi del punk ci sono già tutti nel jazz che è profonda sovversione (verso gli schemi, il pubblico, l’ordine prestabilito) e che qui trova il suo perfetto connubio. The Hands è il loro sesto album in studio di materiale assolutamente heavy, a tinte scure che scema esclusivamente nel finale con una traccia riflessiva come I Guard Her To Rest Declaring Silence. L’ascolto di una band come i Fire! Difatti non può essere paragonata all’ascolto del free jazz. Vi ricordate la “sfida” proposta da Miles Davis col suo Bitches Brew? Anche il jazz poteva avere la potenza del rock, anzi, poteva essere rock. Ebbene, prendendo alla lettera questa affermazione, i Fire! Hanno unito i due generi in uno splendido crossover che ha poco a che vedere con intellettualismi o ricerca nel senso “esoterico” del termine. La ricerca è un’altra (il basso che elettrificato diventa un tripudio di distorsioni, il sax si satura di fischi e fruscii come una chitarra appoggiata ad un amplificatore) e i nostri non hanno paura di dimostrare che non esistono limiti alle fusioni.

Riccardo Gorone

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