12 anni schiavo, la recensione
12 anni schiavo non ritrae la schiavitù, ma ritrae coloro che sono ‘divenuti’ schiavi – pochi, i protagonisti che passano sotto la lente della cinepresa; frammenti di episodi che sicuramente avranno coinvolto popolazioni intere e vicende protratte per anni: un arco di vita che è diventato libro, e che da libro è diventato pellicola
Steve McQueen ha deciso di non dire niente, di far parlare gli sguardi, la violenza, la natura silente che circonda gli uomini, la luce che illumina lo scorrere di un tempo estraneo alle umane vicende, come se fosse possibile pensare una vita libera – libera dai rapporti, dal potere, da relazioni che stringono a sé; una vita senza esistenze, ma che lascia contemplare il suo status: una vita in sé probabilmente irraggiungibile, o poco analizzabile registicamente – i terreni in cui si addentrano la macchina da presa e la fotografia svelano la loro bellezza con una semplicità senza pari (richiami di immagini à la Terrence Malick, ma la fotografia di McQueen è sempre stata la componente cinematografica fondamentale come nei precedenti “Hunger” e “Shame”, o come il film/opera per la biennale di Venezia 2008).
Il film mostra la sopravvivenza, piuttosto che la vita (“io non voglio sopravvivere, io voglio vivere”, dice il protagonista). Non è un caso che il film si concluda proprio quando la vita comincia, quando tutto deve ripartire: la vita che prima era e che ora potrà continuare ad essere. La sopravvivenza non può toccare la vita: geniale la scena in cui Solomon, uomo libero prima della schiavitù, ‘subisce l’intrusione’ di uno schiavo (nero come lui) richiamato subito dal padrone, che si scusa del fatto e che rimane basito nel vedere che quell’uomo con cui si è scusato è un nero (un nero che avrebbe dovuto essere schiavo avrà pensato quel padrone bianco).
12 anni schiavo entra in profondità – una profondità data dalla spaesatezza del protagonista Solomon Northup (interpretato da Chiwetel Ejiofor) – che non smette mai di sperare; nell’ottusità di Edwin Epps (un Fassbender che pratica il potere sul possesso per cancellare la propria fragilità latente: uno schiavo è un qualcosa che appartiene a chi l’ha comprato, quindi, se l’hai comprato, puoi farci quello che vuoi), dalla meschinità di John Tibeats (Paul Dano riesce a risultare eccezionalmente insopportabile e spietato – non può non venire in mente il prete de Il Petroliere di Paul Thomas Anderson), dall’aridità del commerciante Freeman – un cognome piuttosto ironico (Paul Giamatti ha la faccia di gomma, è senza cuore, o meglio, come ammette lui stesso, con un cuore “che si scalda solo per il denaro”).
Solomon trova aiuto nella figura di Samuel Bass (un Brad Pitt – pure in veste di produttore – stanco dei soprusi, che ne ha viste di cotte e di crude e che sta dalla parte degli interdetti – forse un santo cinematografico, ma le vicende sono ricche della pietà e della gentilezza che si nasconde sotto il ben pensare normativo di intere nazioni), opportunità che permetterà la sua liberazione. La legge ha reso un uomo schiavo, dopo dodici anni, con un aiuto sottovoce, la legge renderà un uomo libero. Il perché non c’è dato saperlo: basta una notte in cui abbassi la guardia e ti ritrovi in catene.
La guardia è sempre alzata per cercare lo spazio di libertà: una libertà che rimane senza parole, perché già parla da sé, non il silenzio della schiavitù che non possiede proprio le parole, il linguaggio, i gesti, che spesso sono un dono.